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L’incarnazione di un essere evoluto in un corpo fisico è un sacrificio continuo, perché la materia più densa tende sempre a porre limiti a ciò che non ne ha. Dall’attrito che ne deriva, però, si distilla un nettare che dà il potere a quell’entità  elevata di compiere il suo lavoro nel mondo fisico, di trasformarlo: quello spirito si raffina nel tentativo di aumentare la coscienza dell’organismo che lo ospita. (Paolo Menghi, Trasformare la Mente, p.79)

 

qigong1Ricordo come fosse ieri la mia prima lezione di Qi Gong: dopo alcuni esercizi di scioglimento, l’insegnante ci ha fatto restare in piedi, a braccia aperte, per un tempo che mi è sembrato infinito. Una fatica incredibile. In quel quarto d’ora è successo di tutto: stupore, indignazione, rabbia e frustrazione, ostinazione, e poi fatica, fatica, fatica. Quando abbiamo rilassato le braccia  ho avuto una strana sensazione: la mia consueta postura “spalle indietro petto in fuori” era stata disattivata, se pur momentaneamente, e con essa la sicurezza, l’identità legata a quell’attitudine. Quella è stata la prima volta in cui ho sentito quanto indissolubilmente il corpo esprima e sostenga la forma/personalità con la quale ci si identifica e che si interpreta nella vita. Continuando nella pratica ho cominciato a scoprire cosa comportava, nel mio quotidiano, essere identificata con quella postura, e cosa cambiava, in termini di qualità della relazione con me stessa e con l’ambiente, quando uscivo dal mio schema abituale. Ho sperimentato la potenza dell’automatismo, l’incapacità di accorgermi quando entravo meccanicamente in quella forma, ho notato la sicurezza che mi dava essere in quel modo (sono fatta così), e d’altra parte la schiavitù dell’essere confinata in una sorta di maschera, costretta a inscenare un modo di essere, un vivere sempre uguale a se stesso. La pratica mi ha aiutata ad aprire un breccia e vedere la gabbia di comportamenti e attitudini meccaniche che agivo inconsapevolmente, come un automa, dando per scontato che fossero l’unica realtà possibile.

 Qi Gong è un termine cinese, comunemente tradotto con “lavoro sull’energia vitale”. Osservando l’ideogramma è possibile capirne più a fondo il significato:

photQi è formato da 2 parti: quella superiore significa ‘aria, vapore, elemento sottile’;  la parte inferiore invece significa ‘nutrimento, materia grossolana’.

gong1Anche Gong è diviso in 2 ideogrammi: quello di sinistra indica un elemento fisico, il lavoro; quello di destra invece significa ‘coraggio, forza interiore, costanza’. Qi Gong è quindi l’impegno, il lavoro costante, basato sulla forza interiore, volto a trasformare la coscienza, elevandola dalla sua grossolanità ad uno stato di maggiore evoluzione.

Uno degli aspetti che più apprezzo del Qi Gong è la possibilità che questa disciplina offre di studiare e armonizzare le diverse polarità che abitano la persona. Principio fondante della filosofia cinese è infatti la teoria Yin-Yang, secondo la quale in ogni fenomeno, la vita si genera e si sostiene attraverso l’esistenza  e l’equilibrio di due polarità antagoniste: Yin, rappresentato nel suo ideogramma come ilimages  lato in ombra di una collina, è la recettività, il buio, il sostegno, la femminilità;   Yang, il lato al sole della stessa collina, rappresenta invece l’assertività, il movimento, la luce, il maschile. Yin e Yang sono le due facce di una medaglia, aspetti opposti e complementari dello stesso fenomeno in continua interazione tra loro, e in una relazione di interdipendenza per cui l’esistenza di una si basa su quella dell’altra. Questa relazione è raffigurata nel simbolo del taiji, in cui nero e bianco si muovono in una danza perpetua dove anche nella massima espressione di uno è presente una goccia dell’altro. E’ un equilibrio che investe ogni fenomeno della natura, compreso l’essere umano e i piani della sua coscienza, a partire dalle semplici azioni/reazioni della vita quotidiana.

 

Credere ciecamente nello schieramento ‘giusto’ e contrapporsi a quello ‘sbagliato’ è il modo più facile per scappare dall’attrito, ed è ciò che l’uomo ha quasi sempre fatto fin’ora. [….] Quando una logica polare cade, emerge tutta la complessità che si nascondeva dietro la semplificazione delle polarità contrapposte. Ciò che viene proiettato fuori di sé, come contrapposizione, rientra al proprio interno, dove ogni singola polarità entra faticosamente in attrito con la rispettiva polarità opposta. Se quando questo processo avviene restiamo svegli, si genera un incredibile aumento di complessità e nasce il bisogno di uno spazio più grande, dove possa essere contenuto il moltiplicarsi esponenziale delle interazioni tra i singoli poli. Affinché l’elevata complessità non degeneri in disintegrazione, occorre che gli uomini,  invece di combattersi, inizino a comprendersi e a sviluppare insieme un intento comune. (Trasformare la mente, pp.15-6)

Nella classe, l’insegnante costruisce un setting protetto e, attraverso la pratica degli esercizi, invita lo studente a lasciar emergere, esplorare, integrare e armonizzare le diverse istanze che lo abitano. Si lavora attraverso il corpo per individuare schemi personali di risposta/reazione, e ricercarne i paralleli su altri aspetti della sua vita. Ad esempio, si può impostare un lavoro sulle direzioni (alto basso, destra sinistra, avanti dietro ecc.), sviluppando la capacità di percepire e lavorare contemporaneamente con i molteplici piani del corpo. L’obiettivo è di allargare il campo percettivo, includere e integrare le polarità attraverso la percezione del corpo e del gesto compiuto. Lo studente che si applica in questo compito sperimenta un attrito, l’attrito che nasce dall’incontro di due direzioni opposte solitamente scisse nella coscienza. Sostenendo quell’attrito, impara  a vedere, con-tenere, ed integrare.

Pratichiamo un movimento che si chiama “Yin Yang Gong” (il lavoro su Yin e Yang). E’ un esercizio complesso, in cui una mano compie un movimento in avanti mentre l’altra va indietro, il busto ruota mentre i piedi restano fermi, il respiro deve seguire un ritmo preciso. Nel suo movimento, uno studente si concentra su una sola mano: quella mano è presente, con un movimento accurato, ma l’altra sembra priva di vita, meccanica, scoordinata. Il suo campo percettivo si è ristretto a quell’unica parte del corpo, non ha coscienza né controllo su quello che fa il resto. Così che, durante la torsione, quando la mano spinge in avanti il busto la segue, il piede dietro si solleva e tutto il corpo si sbilancia in avanti: è fuori centro.

Per mantenere una posizione stabile e movimento flessibile, è necessario includere entrambe le mani, ovvero entrambe le direzioni nel campo di attenzione, e si può fare a partire da un terzo luogo, un punto di osservazione centrale che appartiene a entrambe, e a nessuna delle due in particolare. Si pensa che per integrare due polarità sia prima necessario aver trovato un centro; invece, già nel tentativo di inclusione percettiva delle due mani (o direzioni, o aspetti di noi) si è obbligati a lasciar andare la sicurezza derivata dall’essere identificati con una sola parte, e nell’incertezza che ne deriva c’è un’apertura a qualcosa di nuovo. In quel tentativo di ricerca c’è già una risposta.

Qualche giorno dopo metto in relazione quell’episodio con un altro avvenuto da studente nella classe di tejas, in cui ad una minaccia frontale, il compagno risponde uscendo dalla traiettoria e fendendo un colpo diagonale; ma prima di uscire dalla traiettoria della spada, fa un passo verso “l’aggressore”, gli va incontro. Più tardi nelle condivisioni emerge come l’andare verso il compagno che minaccia, piuttosto che difendersi o aggredire ciecamente, offre un maggior controllo della situazione, contrariamente a quanto istintivamente si pensa. Ma quel “passo verso” è possibile farlo solo includendo in sé la polarità “io l’altro”, uscendo dall’identificazione e difesa coatta della propria posizione; modulando la risposta attraverso una scelta, piuttosto che una reazione, e mantenendosi aperti alla relazione con l’altro.

 

Chi sono io? Immobilità e movimento, forma, tensione e abbandono

La necessità di creare dualismi deriva dalla paura che senza contrapposizione si possa cadere in preda all’angoscia, alla confusione e alla perdita della propria identità. (PM p. 20)

Una delle prime questioni con la quale lo studente si confronta nella classe di Qi Gong è la fatica. Mantenere una posizione statica restando immobili per un tempo lungo spaventa e mette in crisi; ma anche gli esercizi dinamici, pur comprendendo movimenti dolci e lenti, richiedono tuttavia una coordinazione costante e precisa tra respiro, movimento e aderenza della mente all’esperienza corporea. Il tempo passa, tra voglia di continuare e voglia di smettere, e intanto lo studente vede emergere aspetti di sé, reazioni che lo caratterizzano, emozioni che lo abitano e che in genere scorrono in modo automatico, al di sotto della soglia della coscienza. E’ difficile raggiungere la consapevolezza che la parte più preziosa nel lavoro è proprio questa, e non la giostra di aspettative con la quale ci si appresta alla pratica. Il Qi Gong è un invito all’auto-coltivazione, e in questo aspetto si allinea con il principio normodinamico  secondo il quale  lo scopo non è essere bravi, fare l’esercizio in modo perfetto, ma di utilizzare la pratica per favorire una miglior consapevolezza, e approfondire il proprio percorso interiore. La forma, sia statica che dinamica, con i suoi limiti definiti protegge e permette di dedicarsi ad una ricerca di ordine, precisione, impeccabilità, autodefinizione, silenzio. Un’ulteriore fase è il Qi Gong “spontaneo”, nella quale lo studente tenta di trasferire ascolto, percezione, silenzio, impeccabilità da una forma prestabilita a una spontanea, che su un piano simbolico richiama l’imprevedibilità della vita quotidiana.

Il corpo è come un libro che cominciamo a leggere, e ogni esercizio  è come una pagina che noi leggiamo del nostro corpo; e ogni pagina, cioè ogni esercizio, ha il merito di approfondirci in questa consapevolezza. Come rileggendo una pagina del Nei Jing (n.b. antico trattato cinese) che ogni volta che la leggiamo, ne cogliamo una cosa nuova. Anche per questo abbiamo diversi commentari dello stesso testo, perché quando leggiamo un libro, quello che voleva dire l’autore non necessariamente è quello che è scritto nei commentari, per cui noi preferiamo quella data traduzione, quel commentario, perché entra più in risonanza con noi. Come succede per i libri, così succede per gli esercizi dove vi sono molte versioni e interpretazioni. Sta a noi sviluppare gli esercizi. Vi viene insegnato lo scheletro, sta a voi sentire la carne. (Jeffrey Yuen, maestro taoista contemporaneo)

Lavorare su una posizione statica è come aprire una finestra immediata su se stessi; il corpo si ribella, si attivano schemi di tensione solitamente inconsapevoli, e che invece possono essere riconosciuti e indagati. Emerge il flusso incessante che attraversa la mente. Ci si confronta con la dimensione dell’abbandono alla pratica, con l’entrare in contatto con quello che si considera essere il proprio punto limite, e il tentativo di fare un passo oltre, entrando in un territorio incerto. Nell’assumere una posizione ferma immobile, per un tempo lungo, ci si pone volontariamente e formalmente come centro/contenitore dal quale osservare i movimenti interiori. I movimenti seguono il pensiero, ogni giorno compiamo decine e decine di piccoli gesti automatici involontari e inconsapevoli, il cui scopo è quello di dare forma e sfogo a un impulso interiore. (toccarsi i capelli, mordersi le labbra, grattarsi il mento, vagare con lo sguardo ecc). Quando il corpo si ferma quegli impulsi dapprima sfogati all’esterno tornano all’interno accompagnati dall’impellenza e dall’urgenza che nasce da un impulso non gratificato. La posizione diventa scomoda, sorgono pruriti, fanno male i muscoli, la mente diventa irrequieta e insopportabile perché non abituata ad essere arginata in tal modo. E d’altra parte il desiderio di continuare.  E già qui è possibile vedere e indagare l’attrito che nasce dall’incontro di due impulsi opposti: continuare/smettere, restare/andarsene. Andando avanti si incontra lo schema personale di risposta allo stress, e il vissuto emotivo che lo accompagna.

Lavoriamo con una posizione statica, “Mapo, le gambe sono impegnate in flessione, le braccia sollevate con i palmi rivolti al cielo, lo sguardo fisso nello spazio tra le mani. M e G chiudono gli occhi, nonostante l’invito a tenerli aperti. G racconta di averli chiusi di proposito, sperando che sarebbe cambiato qualcosa; si chiede ‘ma che ci sto a fare qui’? Chiude gli occhi per non vedere che qualcuno lo vede in difficoltà. E per non vedere se stesso in difficoltà. La posizione, delle mani, chiamata “sostenere il cielo”, associata alla flessione profonda delle gambe, rievoca in lui il vissuto di dover sostenere qualcosa di troppo pesante, nasce un parallelo con un vissuto del suo quotidiano al quale risponde “voltandosi dall’altra parte”, “tenendo duro”, fingendo di essere lo stesso di sempre. Continuando a lavorare mette a fuoco la necessità di concedersi una morbidezza interiore per andare incontro ai profondi cambiamenti nella sua vita, e per dare spazio e validità ai sentimenti che accompagnano quei cambiamenti.

Le forme dinamiche, con il loro carattere lento, fluido, favoriscono aderenza al corpo e silenzio interiore. Si evidenziano subito le dissociazioni, nel cambio di ritmo, movimenti a scatti, perdita di equilibrio ecc. La consapevolezza si estende a tutto il corpo; il movimento cerca grazia e bellezza, al contempo si resta ancorati a un senso di centro (tan-tian=hara), un centro che si muove con noi e dal quale si genera il movimento. Solitamente nel movimento si pone attenzione alla parte che si muove, o a una fase del movimento ecc., qui si lavora per estendere la consapevolezza a entrambe le polarità nel corpo, la parte attiva e l’altra passiva, quella che si muove mentre l’altra stabilizza, e a sperimentare il corpo come un tutto integrato. Studiando la relazione tra tensione e morbidezza, mi chiedo, ‘è possibile un lavoro intenso e articolato pur mantenendo un contatto, un’apertura interna? E’ possibile nella vita accogliere un ritmo intenso di cose da fare, accogliere il passaggio di emozioni contrastanti, mantenendosi aperti, senza irrigidirsi? Mantenendo un senso di intimo ascolto, dolcezza, accudimento?’

Lavoriamo alla relazione tra tensione (vigilanza) e morbidezza (stare nel flusso). Nel movimento “mani di nuvole”, L muove le sue mani in uno spazio angusto, non si permette gesti ampi del braccio, tiene sempre i gomiti piegati, il viso concentrato; è un esercizio difficile per lei. Al tè parla dell’insofferenza e nervosismo che le scatenano alcuni lavori, in particolare quelli che implicano gesti minuziosi e piccoli. E d’altra parte, di fronte ad un esercizio in cui si cerca un movimento ampio, lei stessa si confina in uno spazio piccolo. Si tenta di sperimentare un movimento fluido, attraverso il lasciar andare le tensioni e affidarsi al corpo in movimento. C scopre di non riuscire a concedersi piacere, è sempre tesa. Lasciar andare le tensioni ed entrare nel piacere del movimento le sollecita un senso di colpa.

Integrazione

Diversi anni fa la mia mente ha visto qualcuno in una canoa, su un grande fiume molto lento, quasi fermo. Quest’uomo pagaiava nel senso della corrente ed era ipnotizzato dall’azione che faceva. Ad un certo punto la corrente diventava un pò più forte ed egli usciva dall’ipnosi, accorgendosi per la prima volta che l’azione di remare era una distrazione necessaria, un contenimento per la paura che realmente avvenisse quello che lui, senza saperlo, desiderava da sempre. Quell’uomo si stava cioè rendendo conto che il proprio incerto desiderio che la direzione della corrente corrispondesse alla direzione a cui egli realmente aspirava, si stava avverando. Quella direzione, infatti, esisteva indipendentemente da quel che lui faceva. Ma il suo remare sottolineava la propria adesione alla direzione del fiume. […] La corrente del fiume sta andando dove deve andare; non dovete fare grandi sforzi per dimostrarvi di esistere, tranne quello di tenere gli occhi ben aperti e di sopportare la paura quando le rapide saranno più vicine e ne saggerete l’impetuosità.

Siate contenti di essere nella vostra barca. Curatela. Con essa, lungo il viaggio avrete l’avventura, avrete l’esperienza. E’ questo che avete scelto. La scelta di remare è vostra ma contemporaneamente è la scelta del fiume, del cosmo, dell’universo, la scelta della vita, la scelta dell’evoluzione; non ci sono alternative. Non conosco altra pace. Non conosco altra felicità. Non conosco altra realizzazione. (PM, Figli dell’istante, pp. 24-26)

 

Ci muoviamo continuamente tra due estremi: eccitazione/allerta da un lato, abbandono/propriocezione dall’altro. Ognuno ha una tendenza preferenziale, e la sfida è coniugare questi due aspetti apparentemente opposti, tenerli insieme nel campo della coscienza. Oltre che con le forme e i movimenti, il Qi Gong cerca quest’equilibrio attraverso un lavoro specifico sulla vista: generalmente nelle pratiche che si rivolgono alla relazione della persona con se stessa, come lo Yoga ad esempio, si lavora ad occhi chiusi. Praticando ad occhi chiusi, si favorisce un contatto con il proprio mondo interiore, fisico, emotivo, mentale. A livello neurologico, l’inibizione della vista promuove il sistema propriocettivo, direttamente collegato con quelle parti del cervello che regolano l’ambiente emotivo della persona (tronco cerebrale, sistema limbico). La vista invece è collegata alla corteccia cerebrale, a quelle parti del sistema nervoso che regolano il pensiero razionale, l’allerta, l’eccitazione, la prontezza di risposta. Quando ci si spinge troppo verso l’asse “eccitazione/allerta” si perde contatto con l’emergere del proprio sentire; si è totalmente proiettati fuori, in azioni/reazioni automatiche scollegate dal vissuto interiore. Quando invece ci si immerge totalmente nell’esperienza interiore si perde contatto con la realtà esterna e presente. In entrambi i casi, si è in uno stato di dissociazione. Nel Qi Gong l’obiettivo è di integrare i due aspetti: cominciare ad occhi chiusi per arrivare a praticare ad occhi aperti, mantenendo il livello di ascolto interiore che si raggiunge ad occhi chiusi. Lavorando ad occhi aperti è più difficile accedere al vissuto interiore, d’altro canto quello che emerge viene integrato in modo immediato e naturale. E’ lo stato della consapevolezza, il punto ottimale di incontro tra vigilanza e abbandono, tra propriocezione e capacità di risposta. Questo equilibrio è chiamato in cinese Wu-Wei (lett. non-essere, non-fare). Spesso si confonde il concetto di non fare con un invito alla passività, invece Wu Wei è un invito ad un azione “spontanea”, “priva di forzatura”. Significa essere in conformità con la corrente evolutiva in cui si è immersi.