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Riflessioni sulla pratica di Tejas Yana.

Nella pratica di Tejas Yana il tema della azione è un tema centrale e uno degli aspetti di questa tematica è quello della sua efficacia. Quando una azione può dirsi efficace? Come agire nel mondo in modo efficace, come veicolare attraverso le nostre azioni le nostre reali intenzioni, quali sono gli elementi che favoriscono o determinano l’efficacia del nostro agire e quali quelli che la ostacolano? Queste e altre domande hanno fornito lo spunto per una riflessione al termine della sessione consueta di pratica. Questo articolo vuole essere un modo di condividere queste riflessioni con altri praticanti e con persone interessate ai temi che la pratica stimola. Riportiamo quindi un estratto delle osservazioni emerse in quella sede.

– Mi sembra che la concentrazione e la presenza siano il presupposto per una azione efficace: essere unificati, interi. Essere interamente in quello che si fa. Naturalmente compiere un tentativo di unificazione e di presenza ci mette in primo luogo di fronte agli ostacoli che ci impediscono di raggiungerla, che siano essi pensieri, insicurezza, vergogna, ecc. L’unificazione richiede un percorso per essere raggiunta.
– La ricerca di efficacia nella azione diventa quindi un contatto con i propri limiti e una indicazione della strada da percorrere?
– Sì, in un certo senso è proprio così. In effetti in Tejas Yana la dimensione di ricerca e conoscenza interiore hanno un posto di significativa importanza. Maggiore della acquisizione di strumenti tecnici o di regole di comportamento codificate. Per esempio nella ricerca della “giusta distanza” nel combattimento più che apprendere regole e misure codificate siamo invitati ad essere recettivi alle sensazioni vissute, sicurezza o incertezza, sentirsi al sicuro o esposti e altro, e tutto questo varia a seconda delle circostanze, del contesto, di chi abbiamo di fronte, della nostra condizione.
– Anche per me il sentire è un parametro di fondamentale importanza. Mi sembra di poter affermare che quando mi permetto di “sentire” con un atteggiamento onesto (cioè senza nascondermi nelle interpretazioni) e mi pongo in una condizione di osservazione curiosa di tutto quello che vivo dentro di me (sensazioni, emozioni, pensieri anche spiacevoli), ho già messo le condizioni per un azione efficace.
– Parli della capacità di sostenere ciò che si ha dentro?
– Si. Quando si guarda l’altro negli occhi, quando ci si confronta, si è costretti a guardarsi dentro e bisogna sostenere quello che si vede.
– Sono molto in sintonia con quello che è stato appena detto. Nella relazione le persone ci fanno spesso da specchio ma troppo frequentemente ci rifugiamo in una idea di noi stessi non responsabile come se fossero esclusivamente le circostanze a determinare il nostro comportamento e il nostro agire una inevitabile risposta a quelle circostanze. Ci disappropriamo in un certo senso delle nostre scelte. Tra l’altro tutto questo ci rende spesso incapaci di stare realmente insieme all’altro, di vivere la relazione come un processo dinamico di grande reciprocità.
– Quello che dite mi fa riflettere su quanto molte volte non siamo in contatto con i nostri veri scopi. Quanto siamo spesso guidati da energie che ignoriamo o che non consideriamo a sufficienza. Uno dei miei maestri diceva che un combattente ha tre nemici: il desiderio di colpire, la paura di essere sconfitto, la voglia di vittoria. Riconoscere l’energia che muove le nostre azioni richiede lucidità e coraggio.
– Certo tutto questo comporta la presenza di un gradiente energetico importante. Va sviluppata una grande energia per sottrarsi alla azione automatica, per aprirsi alla consapevolezza delle forze realmente in campo. Senza energia e senza la competenza nel gestirla tutto questo sarà impossibile. La trasformazione, l’uscita dello schema reattivo, automatico e abitudinario richiede un surplus energetico che per essere realizzato c’è bisogno di molto lavoro. E questo è forse il senso più profondo della pratica.
– Fare l’azione al momento giusto. Un attimo prima o un attimo dopo e il risultato è perso. Cogliere l’attimo richiede una perfetta sincronia tra intuizione e azione. Non c’è spazio per il pensiero, per le strategie, per le tattiche. Per questo che si dice ‘ken zen ichinyo’, la spada e lo zen sono la stessa cosa. Per questo nelle scuole tradizionali di arti marziali la pratica meditativa riveste un ruolo di importanza cruciale.
– A questo proposito vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla relazione tra aspettative e azione. Ho scoperto quanto peso hanno le aspettative nella mia vita e quanto condizionino pesantemente le mie relazioni e più in generale le mie azioni. In sostanza, se e quando riesco a non pensare al rapporto col mondo che mi circonda in termini di risultato, o anche solo di aspettativa, ho notato che, innanzitutto, il dolore o i suoi surrogati ansiogeni tendono a restare più circoscritti. Inoltre ho notato che riesco a controllare meglio le mie emozioni e reazioni. Non sono frequenti le circostanze in cui sento di guadagnare questo spazio. Ma quando succede è come se vedessi più lontano. E per farlo, sento di dover rinunciare. Rinunciare al sostegno dell’aspettativa, all’enfasi dell’esito sperato, degli intenti. Spesso sono queste le uniche leve che mi muovono. E mi lasciano indifesa, quando si tratta di fronteggiare la realtà, che richiede solo di essere attraversata e non manipolata.
– Quella che descrivi è una qualità dell’azione che per me costituisce un obiettivo importante. Ha a che fare con la libertà. La domanda che pongo è questa: quanto le nostre azioni rispecchiano ciò che sentiamo e ciò che vogliamo, e quanto invece sono condizionate da quello che pensiamo sia giusto o sbagliato fare, e dalla coazione a ripetere continuamente uno stesso schema. L’episodio che mi ha spinto a volere riflettere più seriamente su questo tema è avvenuto proprio al termine di una classe di Tejas Yana. Partendo da un semplice esercizio eravamo stati invitati dall’insegnante ad ascoltare il nostro corpo e a scioglierlo seguendo ciò di cui avevamo bisogno, ma, nonostante i suoi numerosi inviti, nessuno di noi ha cambiato posizione. Anche io sono rimasta li nonostante trovassi quella posizione, dopo un po’, scomoda e stressante. Tutto quello che sono riuscita a fare è stato un tentativo di adattamento per cercare di rendere quella posizione più sopportabile. E riflettendo sull’accaduto mi sono resa conto di fare esattamente la stessa cosa nella vita. Sono io stessa a mettermi in un angolo, e tutte le mie azioni sono volte a rendere quell’angolo più sopportabile, a farmelo andare bene. Così facendo si instaura un meccanismo malato, in cui alterno momenti di grande speranza in cui impiego tutta la forza che ho a disposizione per convincermi che se mi impegno di più e sarò più brava quell’angolo sarà finalmente perfetto per me, a momenti in cui necessariamente mi rendo conto che non è così e mi sento in colpa e mi demoralizzo per non esserci riuscita. Quanto spazio ci concediamo per capire se il punto in cui ci siamo messi rispecchia veramente quello di cui abbiamo bisogno? Credo che la mancanza di ascolto sia dovuta a diversi fattori, primo tra tutti la paura. Probabilmente se ci assumessimo la responsabilità di ammettere a noi stessi quello che realmente vogliamo e di cui realmente abbiamo bisogno, ci costringeremmo ad azioni che ci porterebbero verso l’ignoto, che romperebbero gli schemi, che sfuggirebbero al nostro controllo e che porterebbero davvero a cambiamenti radicali. Quindi, tornando al nostro tema, credo che un’azione, per essere efficace, richieda il coraggio di ascoltare tutte le nostre istanze interne assumendoci la responsabilità di quello che sentiamo, ed il coraggio di affrontare il cambiamento che necessariamente un’azione comporta.

Chi volesse partecipare a questa discussione portando ulteriori tematiche connesse con il tema proposto o approfondendo quelle già emerse può farlo, e è invitato a farlo, scrivendo a info@mandala.it.

CONTRIBUTI:

“Sarà il momento giusto? La qualità di questo tempo corrisponde alla qualità del risultato che mi prefiggo? ” “… Non posso far nulla per …”. Fin ora il mio pensiero funzionava per lo più così. Penso, oggi, che l’azione efficace è tale soltanto per chi la compie: è effettivamente ed eminentemente intima, più che personale. Penso, per esperienza, che l’azione efficace è tale per chi la compie soltanto quando assolve, tuttavia, ad una precisa condizione: che si agisca per uno scopo superiore: per un compito preciso: non per vantaggio, né per paura, né per gloria. Ma per qualcosa che, in quel preciso istante, manca al nostro essere più profondo, il quale ne sente così tanto il bisogno da coglierne, proprio in quell’istante, in quella precisa circostanza, il passaggio, la presenza, “il potenziale”, intorno a sé. A costo di sacrifici, di prove. E sentire che nessuna velleità colmerà mai quella ricerca, il realizzarsi istantaneo di quel contatto.
Può trattarsi di un incarico marziale o di un’esigenza di crescita personale per cui mi sto battendo; ma è sempre l’incontro di un’esigenza profonda dell’animo con il mondo che ci circonda. Che è lì ad aspettarci. (MN)