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E’ un libro sul potere, un libro sulla guerra e sulla pace, sulla morte e sulla vita.
Nell’anno 1600, in un Giappone che sta vivendo un momento critico della sua storia per problemi di successione al trono e conseguenti tensioni tra i potenti del paese, il pilota Blackthorne, inglese di origine ma alla guida di una nave olandese, approda dopo un estenuante quanto avventuroso viaggio in un piccolo villaggio della costa. Inizia così una avventura che lo porterà ad un contatto sempre più serrato con una civiltà con regole sociali ferree, permeata da spietatezza e rigore, una società per certi versi arretrata rispetto all’Europa seicentesca e per altri enormemente più evoluta.E’ in questo scenario che lo scrittore, James Clavell, ci guida a contattare un mondo abitato da uomini e donne in cui, al di là del bene e del male, della perfidia o della bontà, impariamo a riconoscere una dignità particolare, inconfondibile, quasi eroica. In ognuno di questi personaggi, nella propria diversità, è presente una coerenza ad un perno personale fatto di valori, compiti, ruoli, per ciascuno differente e individuabile. Ritornano alla mente i personaggi del Mahabharata, la loro coerenza interna, il loro coraggio di adesione ad un principio, quella ‘leggibilità’ che corrisponde a un rischio personale di una scelta o alla accettazione di un destino o meglio del karma, delle conseguenze delle proprie azioni. Il protagonista incontra un mondo in cui certamente l’uomo non è considerato il centro dell’universo come lo era nella vecchia Europa, né tantomeno la sua vita un evento unico, bensì un momento di passaggio, una manifestazione, l’incarnazione di una energia che non nasce con la nascita né muore con la morte fisica. E l’universo della realtà consueta apparentemente così solido, stabile, reale, viene considerato fondamentalmente illusorio, mutevole, fatto della stessa sostanza dei sogni. La morte, che nel nostro mondo decreta una fine irrevocabile, non viene considerata altro che un passaggio, in certi momenti perfino agognato, fonte di sollievo e a volte di riscatto. Proprio in quel mondo in cui la presenza della morte è così forte, la possibilità della fine dell’esistenza sempre così a portata di mano, la vita stessa risulta più densa di significato, più piena. E ci sono momenti in cui la vita appare realmente condensata, il tempo lascia la sua presa, lo spazio diventa magico. Sono momenti unici, irripetibili, come quello in cui Buntaro-san offre una cerimonia del tè (cha-no yu) a sua moglie Mariko, per ordine del suo signore, il nobile Toranaga. Tra di loro una storia d’amore disperato e di odio, di rancori e ricatti, di litigi furiosi, di disperazione e impossibilità. Lui il guerriero più duro, rozzo, violento, lei il prototipo di una femminilità delicata e matura, raffinata e forte.

E in quella cerimonia, nella dedizione completa, nella meticolosità esasperata, nella interezza della presenza dei personaggi tutto viene incluso e trasceso al tempo stesso. Propongo uno stralcio di quell’episodio, sottolineando un aspetto, tra le mille sfaccettature di questo racconto, che apre una finestra in un mondo e in una cultura governata da schemi inconsueti, a volte di difficile comprensione, e porta a interrogativi e a spazi interni di riflessione.

…“Buntaro si tolse il chimono, depose le spade e cominciò a pulire: prima la minuscola sala, la cucina e la veranda. Poi il sentiero serpeggiante e le pietre incastrate tra il muschio e infine le rocce e il giardino. Strofinò e spazzò e lustrò finché tutto fu immacolato, lasciandosi pervadere dall’umiltà del lavoro manuale, che era l’inizio del cha-no-yu, poiché toccava soltanto a chi invitava rendere tutto impeccabile. La prima perfezione era la pulizia assoluta.

Al crepuscolo i suoi preparativi erano quasi terminati. Allora aveva fatto il bagno con cura, e poi aveva sopportato il pasto e il canto. Appena possibile, era corso a indossare abiti più scuri e si era affrettato in giardino. Aveva gettato acqua sulle pietre e sugli alberi, così che – disseminati com’erano di piccole luci – il giardino si era trasformato in un incanto di gocce iridescenti e danzanti nella brezza calda. Cambiò di posto a qualche lanterna e infine, soddisfatto, aprì il cancello e si recò nel vestibolo. I pezzi di carbone scelti meticolosamente e altrettanto meticolosamente disposti in piramide sull’arena bianca, bruciavano al modo giusto. Perfetti erano i fiori del takonama. Pulì di nuovo gli utensili già lucenti. L’acqua nel bricco cominciò a bollire ed egli fu contento di udirne il suono reso più vivace dai pezzettini di ferro che aveva accuratamente disposto sul fondo.

Tutto era pronto. La prima perfezione del cha-no-yu consisteva nella pulizia, la seconda nella assoluta semplicità. L’ultima, e la più grande, nell’essere adeguato a un particolare ospite, o agli ospiti. Udì i passi di Mariko, poi la sentì sciacquarsi le mani nella fresca acqua di fiume della cisterna. Tre passi leggeri fino alla veranda. Altri due fino alla soglia riparata dalle tende. Perfino lei dovette curvarsi per passare dalla porta volutamente minuscola perché tutti si umiliassero attraversandola. Al cha-no-yu erano tutti pari, il più nobile dei daimyo e il più modesto dei samurai, e perfino un contadino, se fosse stato invitato.

Mariko osservò prima di tutto la disposizione dei  fiori. Buntaro aveva scelto una sola rosa selvatica rossa e aveva deposto una sola goccia sulla foglia, posandola su pietre rosse. Con il fiore egli diceva: l’autunno sta per venire, non piangere su questo tempo, il tempo della morte, in cui la terra sprofonda nel sonno; godi il tempo del nuovo principio e prova la gloriosa freschezza dell’aria autunnale in questa sera d’estate… presto la lacrima svanirà e così la rosa, soltanto le pietre resteranno… presto tu ed io svaniremo e soltanto le pietre resteranno. Osservò Mariko, distaccato da se stesso, sprofondato in quella sorta di trance che a volte aveva la fortuna di godere chi offriva il cha, in completa armonia con quanto lo circondava. Mariko si inchinò al fiore in segno di omaggio e venne ad inginocchiarsi di fronte a lui. Indossava un kimono marrone scuro, con un filo d’oro lungo gli orli che metteva in rilievo il candore del collo e del viso. L’obi verde scurissimo armonizzava con il sottabito. I capelli erano acconciati semplicemente e senza ornamenti.

“Sei la benvenuta” disse Buntaro dando inizio al rito…